01.10.2024 - 23.11.2024
FUORI DA ME STESSO
Felice Levini - Salvo
Felice Levini - Salvo
Le lapidi di Salvo hanno partecipato del clima poverista – o forse sarebbe meglio dire della “pittura vietata” – torinese del decennio Settanta. Nel solco fra la pittura di copia e lo stile autonomo, Salvo sperimenta, per la Galleria Sperone, una serie di lapidi incise che recano la propria autoaffermazione nel mondo e nella storia dell’uomo. In un percorso già avviato dall’artista attraverso la macchina fotografica di Paolo Mussat Sartor, l’immagine narcisistica del sé viene forzata all’interno della narrazione storica come autoaffermazione nel sistema globale e nel filone storico-artistico del Novecento. Privato della pratica pittorica, l’artista utilizza le parole per evocare l’immagine del pennello: una tracotanza lessicale che verrà poi tradotta cromaticamente su tela dall’anno immediatamente successivo a questa serie. Gli autoritratti di Felice Levini, parte fondante della sua poetica sin dal 1979, attraversano numerose pratiche artistiche: innanzitutto egli compie un atto performativo e mimetico, allestendo un’immagine complessiva che al personaggio rappresentato unisce un’ambientazione coerente che fa da quinta teatrale; in secondo luogo, viene ricucito lo strappo di fine Novecento con l’autoritratto. Partendo dai primordi del genere, l’artista sostituisce alla presenza pittorica autoritrattistica una presenza reale, inscenata attraverso il mascheramento. In questo modo egli è sia tutti i personaggi interpretati sia il se stesso celato sotto le maschere, in un processo di ricollocamento dell’artista nella storia dell’uomo e della sua mitologia. Persiste, inoltre, una militanza dell’immagine che reagisce al vuoto creato sulle macerie degli anni Settanta e, in maniera saldamente pittorica, riafferma l’importanza dell’immagine di sé e dunque dell’uomo come parte fondante del suo passaggio nella storia.
Sguardo fisso di fronte a sé, fucile imbracciato e fondina al collo. Una remigante d’aquila in testa. Nuvola Rossa sbrana lo spettatore in un laconico grido di difesa delle sue genti. Sotto un cerone rosso e una bandana, l’artista sta prendendo parte alla storia dell’uomo; non vuole ingannare il tempo ma vuole iscrivervisi in piena tradizione rinascimentale, immortalato dalla macchina come il Raffaello nascosto nella Scuola di Atene. La posa irreprensibile non tradisce il peso incombente che gli grava da destra.
AMARE ME lotta per occupare il suo spazio; lo fa a colpi di monumentalità funerea, alternati alla leggerezza di un’asserzione d’amore che cela l’imperativo assoluto. Virando verso il rosa, il marmo è lacerato dall’incisione a carattere romano che ne mostra le membra accese di rosso. L’amore e la violenza si intrecciano aggredendosi con l’ultimo baluardo del mondo moderno: il possesso.
Il segno di questo conflitto rimane tracciato in rosso nel biancore di GETTARE VIA, un accenno voyeuristico mancato, strozzato in gola dall’assenza della proposizione riflessiva. Sinossi apologetica, la lapide marmorea ammicca cristianamente alla liberazione attiva da qualcosa, da qualcuno, neutralizzandone l’accezione positiva o negativa e sospendendo il giudizio. Le fuma in faccia, beffarda, la sigaretta di Autoritratto in fumo, che non si lascia irretire del positivismo cristologico della lapide e torna sulle orme della Caverna di Platone. Di fronte al profilo metallico non rimane che una linea inerme, vuota all’impercettibile, che ci costringe a guardare il mondo dall’ombra tracciata sul muro, simulacro del mondo che siamo persuasi di avere fra le mani.
Passato l’interludio dell’archetto ci immergiamo involontariamente nelle coordinate geografiche della nostra intimità. Ad attenderci c’è il Nautilus con gli occhiali inforcati, che poggia i piedi nudi sull’azzurro del mare. Stabile, egli si prepara a ricercare se stesso nelle profondità di se stesso. Sembra indicarci la via come un moderno Caronte e forse ci sta anche illudendo di trovare, in quella costellazione marina che lo avvolge, qualcosa di importante. In realtà, ci sta dicendo che il vero obiettivo è la ricerca stessa.
MANGIARSI si muove nello stesso spazio angusto e infinito, mostrandocene il lato tragico. Se la ferocia concettuale è attutita dalla scelta verbale, la forma riflessiva spalanca le porte dell’incontinenza, proiettandoci nel cerchio dantesco dei lussuriosi. Il lemma non fa da monito ma suona come un incitamento voyeuristico all’appropriazione cannibalistica e consenziente di sé e dell’altro.
IDIOTA è l’origine delle sue compagne, il primo motore immobile. Anticipatore dell’aforisma nell’arte, l’ironico epiteto sembra gridato dalla nettezza del tratto inciso. Viscoso e pungente, risulta impossibile da ignorare, da non avvertire come diretto a te che lo stai fissando come fosse uno specchio. Sardonica, la lapide si fa beffe della sua compagna d’angolo.
Avvolto nella sua cornice d’oro e nel suo cappotto nero, Einstein ha lo sguardo consapevole dell’unico uomo sul quale quell’appellativo non attecchisce, forse l’unico in grado di proferirlo. Eppure, tace, senza degnarlo di uno sguardo, consapevole che il genio non sarebbe nulla senza il brulicante germe dell’idiozia.